Myriam Cappelletti: o la leggerezza della piccola arca Abito come ‘forma’ [1] E’ forma l’abito; (è forma l’armadio) è forma/contenitore che raccoglie la più concreta delle realtà percepite: il nostro corpo e di conseguenza noi stessi. Abito come semplice rivestimento? Di più, come ‘grembo’, come forma accogliente, misurata su se stessi, allusiva alla nostra consapevole dimensione esistenziale; di conseguenza compagna della nostra –mutevole- identità. Ci riveste con significati simbolici, ci segue, instaurando con noi un particolare rapporto simbiotico. Lo conserviamo per settimane, per anni, in qualche modo immedesimandoci con lui che ha fatto parte del nostro quotidiano. E’una traccia della nostra storia. A differenza della foto, lo abbiamo indossato facendolo parte di noi; ha assorbito gesti, comportamenti, emozioni. Talvolta lo abbandoniamo, lo gettiamo, per quel naturale rapporto di ambivalenza che comunque ce lo rende vicino. Se ha assunto la nostra forma, esso è stato –ed è- un nostro contenitore. [2] Il punto è : ma contenitore di cosa? Di un ricordo/sostanza? Di un’esperienza? Certo di un vissuto che non è una parte, bensì il tutto. Nel vestito che contiene metaforicamente la vita, l’essere di una persona (il corpo e la sua mente, il suo fisico e il suo “io”) non c’è un frammento ma l’insieme. Il ricordo, anche se ricondotto nel tempo e storicizzato, coinvolge tutto l’essere che lo ha vissuto. Se l’abito è simbolicamente “involucro” di una esistenza, contenitore e forma conclusa, oggetto (con valore anche culturale) protettivo, espressivo e intimo compagno di viaggio, diventa testimone di qualcosa che c’è stato. Si manifesta come piccola arca di un tutto, copre e mantiene una vita. E’ vero che gli abiti cambiano, come cambia il volgersi della vita stessa, ma in ogni cambiamento –in ogni cambio di stagione dell’esistenza- c’è compreso quel che si è vissuto, nella percezione della sua interezza e nello sguardo di “quel” momento. Come esiste un albero della vita, così si può pensare ad un ‘abito della vita’: che si fa colorato, che si fa trasparente, si fa materico, si fa intimo, si fa scrittura… poiché contiene la storia “scritta” del proprio vivere, testimone muto del “sé”; traccia del desiderio e dell’amore, della passione e del dolore, della vita e della morte. Abito come sentimento, rappresentazione visuale dell’esperienza quotidiana. Abito come icona, che resta, delicata, nelle mani di Myriam.
Armadio come forma reale e virtuale [3] L’armadio è la biblioteca delle nostre “forme”, lo spazio riposto di quel nostro molteplice io leggero. E’ il raccoglitore, reale e virtuale, dei nostri sfaccettati simulacri, dei nostri veritieri modi di essere, dei nostri (de)formati atteggiamenti. Esso unifica i nostri oggetti/emozione (gli abiti appunto, in cui si salda la ‘cosa’ con la percezione della sua appartenenza a noi), offre loro uno spazio e un approdo e si presenta esso stesso come forma. Una forma che prende le sembianze di una struttura architettonica pronta a ricevere quei lembi protettivi del nostro corpo, manifestazione della nostra immagine, espressione della nostra personalità, eppure talvolta corazza. Ma ‘forma’ che diventa anche virtuale nelle linee azzurre di un laser che la disegnano su un muro, su una parete, a testimoniare la realtà e la simbologia di questa biblioteca di contenitori. In essa è più facile riversare il nostro ricordo e la nostra memoria. Così l’armadio/architettura e l’armadio/laser, entrambi ‘forma’, raccolgono e riuniscono tutti gli aspetti di un vissuto, momentaneamente parcellizzati, ma che mantengono la totalità e la continuità del nostro essere. Allora nell’armadio c’è la storia nelle sue facce più umili e personali, come c’è in un libro nei suoi numerosi capitoli, ciascuno dei quali è importante e rappresentativo dell’intero. Questi armadi blu, colore fortemente evocativo, richiamano all’ascolto di quanto in essi vi è contenuto, ai suoi molteplici significati, alle sue piccole testimoniali verità umane. Umili e vicine, nelle loro forme e nei loro colori. Attilio Maltinti |